SUCCO

Una terapia.

Come accennato alla fine della pagina SUCUS, intendo proporre un’ulteriore possibile evoluzione della radice suc- del gentilizio latino Succonius: quella in succo,-onis.

Si tratta però di una parola controversa poiché la sua corretta lettura nell’unico testo latino classico, le lettere ad Attico di M. T. Cicerone, in cui è presente ed è utilizzata una sola volta nel senso di “riccone” e/o di “intascatore, usuraio, strozzino“, non è condivisa da tutti gli studiosi. Ciò che di esso possediamo è il risultato della collazione di molti manoscritti, alcuni corrotti o lacunosi ed altri più o meno completi, e purtroppo nessun esemplare ad oggi superstite è più antico del XIV secolo, ma tutti furono glossati da letterati che fortunatamente riuscirono a leggerne di più antichi e perduti: il più famoso di questi è certamente il Petrarca, che decise di radunare tutte le sue Epistulae imitando il modello ciceroniano presente nel codice, che non ci è giunto, da lui scoperto e compulsato nel 1345 presso la Biblioteca Capitolare di Verona. A causa di queste molteplicità e frammentarietà delle fonti e del gran tempo passato tra la stesura dell’originale contenente tutto l’epistolario e le successive riproduzioni da esso tratte (sempre passibili di errori da parte degli amanuensi), ogni edizione critica è costretta a muoversi con cautela nel cercare di riempire i vuoti di senso di alcuni passi con i termini più adeguati.

Trattandosi quindi di un hapax, forse un neologismo, un arcaismo, un volgarismo od un’invenzione “ad hoc” di Attico, la cui forma grafica primigenia potrebbe essere stata leggibile con difficoltà nei manoscritti più antichi, non è possibile stabilire con certezza se e quando il copista abbia sbagliato o meno nel trascriverla: taluni, attenendosi esclusivamente a quanto risulta da un’analisi paleografica, vi leggono correttamente una A (sacco,-onis); altri invece si spingono ad inferire che si tratti di una originaria e mal ricopiata U (succo,-onis) e questa scelta dipende più da interpretazioni del senso complessivo del testo che non da ragioni strettamente paleografiche (che pure non mancano). Solo che il testo…è un enigma. Questo dilemma, unito al fatto che non vi siano altre opere in cui la parola compaia con quello specifico senso, determina la difficoltà di stabilire quale sia la forma corretta; difficoltà aumentata dal possedere entrambe un senso compiuto nel contesto in cui si trovano ed il medesimo significato figurato (per lo meno nelle più probabili intenzioni dei due illustri corrispondenti).

Al termine della pagina poporrò un significato sicuramente dubbio e quindi opinabile, ma che non manca di qualche condivisibile argomento: il suc(c)o,-onis, ipoteticamente cognato di un omofono e forse equivalente etrusco zuχu, potrebbe essere stato un sacerdote-medico nella fase più arcaica della storia etrusca e latina, quando ancora non esisteva una netta distinzione fra tradizione magico-sapienziale ed evoluzione tecnico-empirica nella pratica medica e quando Esculapio non era ancora giunto sull’isola Tiberina a bordo di una nave, insieme ai sacerdoti romani inviati in delegazione dall’Urbe ed incaricati di apprendere, direttamente presso il tempio a lui dedicato ad Epidauro, i segreti dell’arte e di ritornare portandoli con sé, a Roma. Nella mia ipotesi il termine avrebbe potuto dunque identificare una figura quasi specialistica, il flebotomista, dedita alla pratica terapeutica del salasso (il termine sucus per estensione indica anche il sangue), ma sarebbe in seguito caduto in disuso o conservato solo nel latino volgare, non scritto, come epiteto forse quasi derisorio o ingiurioso, dovuto ad un peggioramento semantico conseguente ad una perdita di valore della figura sacerdotale ad esso collegata, se non a livello sacrale per lo meno a livello tecnico-terapeutico.

sAccones o sUccones?

Le due lettere (VII, 13, 5 e VII, 13a, 1) di Cicerone, datate solitamente e rispettivamente 23 e 24 gennaio del 50 a.C. (anno 704 ab urbe condita), contengono una richiesta di consigli all’amico Tito Pomponio Attico su come comportarsi stante la situazione di conflitto tra Cesare e Pompeo, durante la quale l’Arpinate sceglierà poi di schierarsi per il secondo. Più che per datazione certa, le edizioni critiche sono solite dividere la lettera in due testi separati 13 e 13a proprio a causa delle due frasi dedicate all’indovinello in questione, che lasciano intendere sia intercorsa una discreta quantità di tempo tra la sua lettura e la sua soluzione; tuttavia potrebbe anche trattarsi di una singola lettera, ma scritta in due tempi prima di essere inviata. Quasi incidentalmente infatti, tra la fine della prima lettera e l’inizio della seconda, Cicerone parla di un indovinello a prima vista insolubile, che Attico deve avergli proposto sulla figura degli Oppii di Velia (polis magnogreca o colle romano che fosse), forse ricchi banchieri e prestatori di denaro, con i quali la moglie dello scrivente, Terenzia, avrebbe avuto un prestito di denaro in corso, se come creditrice o come debitrice tenterò di chiarirlo poi. Altrove in una successiva epistola, la VIII, 7, 3, del 23 febbraio 50 a.C., afferma che il denaro, che gli serve per poter seguire Pompeo nella sua guerra contro Cesare, lo potrà ottenere solamente o dal tempio di Giunone Moneta (la zecca presso cui, proprio grazie a questo passo, si è ipotizzato che i cittadini potessero portare argento per essere scambiato o fuso in monete) o dagli Oppii (probabilmente o dopo il risarcimento del debito di cui sopra oppure a seguito di una nuova richiesta di prestito, a seconda di come si interpretano le informazioni ricostruibili da altre lettere dell’epistolario) che chiama “…Oppiis tuis contubernalibus…”, cioè commensali o vicini di casa di Attico, (i “contubernales” erano i “camerati” che nell’esercito condividevano una medesima baracca o tenda all’interno di un accampamento militare) sul colle Quirinale: questo ascendente dell’amico sulla famiglia veliense, la cui familiarità è deducibile dal testo, dev’essere stato il motivo per cui Cicerone gli chiese di intercedere per (ri?)ottenere il denaro e da cui forse, nelle due lettere antecedenti qui esaminate, scaturì anche l’indovinello in questione.

Testo

Tra le tante edizioni critiche complete del manoscritto in latino, in cui si trova il lemma in questione con una traduzione e le note a commento, vi sono anche “Opere recate in volgare con note e col testo latino a riscontro, Volume 7“, Francesco Bentivoglio, Stella editore, Milano – 1828, “Lettere di M.T. Cicerone, Volume 6“, Antonio Cesari, Stella editore, Milano – 1829, ed il “M. Tullio Cicerone, Epistole Ad Attico“, Carlo Di Spigno, Vol. I UTET – 1998, che scelgono tutte la lettura succones e da cui traggo la traduzione aggiungendo tra le parentesi quadre e graffe le parole sottintese e le varie interpretazioni proposte come glosse da alcuni filologi (e magari rifiutate da altri):

VII, 13, [5]      23 gennaio 50 a.C. 
…Aenigma (tuum?Schütz) [sacconumWatt/succonumShackleton {OppiorumMediceus}?] (ex Velia?Mediceus) plane non intellexi; est enim numero Platonis obscurius.

VII, 13a, [1]    24 gennaio 50 a.C.
Iam intellexi tuum aenigma; Oppios enim de Velia [sacconesWatt/Mediceus(?)/succonesShackleton(?)] dicesMediceus(?)/dicis(?). In eo aestuavi diu. Quo aperto reliqua patebant et cum Terentiae summa congruebant...
VII, 13, [5]
…L’indovinello (tuo?) [su quei ricconi/quelle sanguisughe {degli Oppii}?] (di Velia?) non l’ho proprio capito; in realtà è più oscuro del numero di Platone. 
VII, 13a, [1]
Ora sì che ho capito il tuo indovinello: con il termine [“ricconi“(?)/”sanguisughe“(?)] intenderai (se Cicerone fosse stato ancora dubitativo riguardo alla soluzione) / intendi (se Cicerone fosse stato certo di aver capito) definire gli Oppii di Velia. Per risolverlo mi sono spremuto a lungo le meningi ma, una volta trovato il bandolo della matassa, il resto diventa chiaro e va d’accordo con il totale di Terenzia…

Glosse e lettura critica

Christian Schütz, uno dei molti filologi che si sono occupati delle Epistulae, propose di aggiungere solo “tuum” all’iniziale “Aenigma” e di ignorare la glossa “Oppiorum ex Velia” presente nelle due famiglie di manoscritti Δ e Σ (quali ad esempio il Mediceus) entrambe discendenti da un archetipo comune chiamato convenzionalmente Ω; glossa che, secondo lui, fu aggiunta dallo scriba per richiamare anticipatamente al lettore ciò che sarà esplicitato da Cicerone solo nella lettera successiva e per creare così, nelle intenzioni, un nesso chiarificatore. Riguardo poi all’uso della particella “ex, equivalente ma differente dal “de” di poche righe dopo, W.S.Watt ritiene che risalga a Cicerone stesso (lectio difficilior), impegnato probabilmente a riscrivere le parole esatte dell’indovinello non ancora risolto: le glosse aggiunte dai copisti amanuensi servivano infatti a rendere il testo originale più chiaro, ma non a discapito della conservazione di ogni suo dettaglio leggibile, per cui difficilmente lo scriba si sarebbe preso la libertà di cambiare il successivo “de” in “ex” se tale differenza non fosse stata presente nel testo originale e solo per ripetere volutamente la stessa particella di qualche rigo prima. L’argomento non è di poco conto perché, se le cose stessero così, l’unica aggiunta vera e propria del glossatore da rimuovere per risalire all’originale sarebbe “Oppiorum” ma, in questo caso, il successivo “ex Velia” perderebbe di senso se non fosse stato preceduto, già nel testo originale di Attico, da un altro sostantivo ad esso pertinente: sacconum secondo alcuni come Watt (che lo connette al successivo saccones che si legge chiaramente su molti manoscritti) o succonum secondo altri come Shackleton (che invece si spinge a fare una congettura sul senso complessivo del passo); inoltre, se questi filologi avessero ragione, la successiva ripetizione in saccones o in succones rafforzerebbe la scelta dell’una o dell’altra forma: diminuirebbe infatti l’eventualità di errori di copiatura e ricondurrebbe tale scelta direttamente a Cicerone, senza contare che anche quella semplice particella de/ex avrebbe potuto avere un senso specifico nel calembour di Attico.

Shackleton Bailey, in particolare, ritiene che l’ “Oppiorum” della prima lettera sia un’aggiunta del copista nel manoscritto Mediceus 49.18 (ed in altri, vd. sotto) fatta per dare un senso compiuto al “ex Velia” e per richiamare e connettere il testo della seconda senza dover scegliere tra il “saccones” o il “succones” della lettera successiva, cosa che, probabilmente, costituiva già allora per il copista un problema di comprensione dell’enigma e del gioco di parole implicato. Questa scelta, operata probabilmente a seguito di una lacuna o di un’illeggibilità della parola precedente al “ex Velia” nel manoscritto da cui fu tratta la copia, apre però un problema che forse sfuggì all’amanuense: se infatti si è convinti che, dopo averne capito il dotto doppio senso linguistico (“…Quo aperto reliqua patebant…”), a rivelare a Cicerone l’enigmatica identità dei personaggi di Velia avrebbe dovuto essere proprio la sola *parola misteriosa richiamata da Cicerone nella seconda lettera (VII, 13a, [1] 24 gennaio 50 a.C. Oppiorum de Velia *saccones/succones dices…“), non si può pensare che l’ancora incerto destinatario dell’enigma scrivesse il loro nome, cioè la soluzione dell’enigma stesso, già nella prima (VII, 13, [5] 23 gennaio 50 a.C. “…Oppiorum ex Velia…”) proprio nel momento stesso in cui ammette di non aver ancora capito l’indovinello (“…plane non intellexi…”).

Tuttavia, accettando questa critica, a mio avviso si mette un po’ in discussione anche l’asserita originarietà ciceroniana dell’ “ex Velia” sulla base della supposta impossibilità di modifica di un testo da parte dello scriba, poiché di sicuro citare nell’indovinello da parte di Attico almeno la provenienza degli oscuri personaggi (ed il suo ripeterlo da parte di Cicerone nella lettera di risposta) avrebbe facilitato di molto la soluzione ad una mente così acuta. A questo punto dunque la lettura migliore diventerebbe quella di Schütz, senza “Oppiorum” e senza “ex Velia“: se cade la prima, la seconda perde il sostantivo di cui vuol essere la specificazione e, per non costituire contraddittoriamente un indizio troppo evidente alla soluzione di un’enigma dichiarato così oscuro, deve cadere anch’essa.

sUccones

“Per le varie ipotesi di spiegazione dell’enigma, a seconda anche della lezione che si adotta (saccones o succones) si veda il commento di D. R. SHACKLETON BAILEY, in Ciceros letters to Atticus IV, Cambridge 1968, pp. 136 sg. Ivi succones è inteso come venditori di succhi; non mi sembra però da scartare un riferimento a usurai, succhioni, oggi diremmo vampiri.” (“Onomastica. Novità onomastiche in iscrizioni inedite di Roma“, Silvio Panciera, pag. 1879, nota 81).

Suc(c)o,-onis  = “(zucca) ventosa“; a sucker” secondo il Charlton T. Lewis and Charles Short Latin Dictionary, Harper & bros. -1879; suceur” secondo il  Gaffiot, Félix Dictionnaire Illustré Latin-Français, Hachette (1934); ed il più esplicito “qui succum extrahit” secondo il Totius Latinitatis Lexicon di Egidio Forcellini, del 1861, volume 5 pag. 724:

   SUCCO et Suco, onis, m. Nomen a sucus, verbalium more effictum, qui succum extrahit: ita per contemptum vocatur fenerator, qui usuras ex debitoribus severe admodum exigit; . Cic. 7. Att. 15. Oppios enim Velia succones dicit; h. c. αινιγματικως Oppios feneratores in Velia, de quibus mentionem item facit Id. 8. ibid. 7. : videtur autem alludere ad ipsum nomen Oppii, cum οπος Latine succum significet. Alii minus recte saccones, salacones, sanctones, etc. legunt.
Traduzione mia con note personali tra parentesi:
SUCCO e Suco, onis, m. Il nome deriva da succo, modellato secondo l’usanza dei (termini) deverbali (intende anche i
nomina agentis?), chi estrae il succo: così è chiamato, a titolo di disprezzo, l’usuraio che esige più pesantemente l’interesse usurario dai debitori; Cicerone in lettere ad Attico (7.15) chiama gli Oppii succones in Velia (la città greca vicino a Salerno?); (h.c. = honoris causa?) a titolo d’onore (per essere onesti?) enigmaticamente (nel senso che non si è certi che lo fossero?) gli Oppii furono usurai in Velia (il colle di Roma? era tra l’altro vicino al colle Oppio
, il cui nome deriverebbe dall’antroponimo falisco Opiter = “colui che aiuta”, con la medesima radice del lat. ops = “ricchezza, abbondanza, aiuto”, che aggiungerebbe un altro elemento al calembour di Attico), dei quali si fa menzione ancora in 8 e 7: sembra infatti alludere al nome stesso degli Oppii, poichè in latino (il termine greco) oπός significa succo. Altri meno correttamente leggono saccones, salacones, sanctones etc.

Il motivo per cui questi autori, insieme ad altri, scelgono succo,-onis è perché Cicerone parla di un indovinello (aenigma) difficile da risolvere, il che fa pensare che Attico ne abbia formulato uno giocando sulla comune etimologia e sull’assonanza fonetica tra Oppios ed il greco antico oπός (pr. opòs, vd. ETIMOLOGIA) e sulla corrispondenza semantica tra oπός (propriamente indicante il latice del fico ed i succhi presenti nei vegetali in genere, corrispondente anche al latino ops,-is) ed il latino suc(c)us da cui succo,-onis deriva, al contrario di sacco,-onis, che sembra derivare da saccus, cioè “sacco, filtro a sacco”, a sua volta dal semitico attraverso il gra. σάκκος.

Succo,-onis da tutti viene tradotto con significato primario di “ventosa, sanguisuga“. La scelta poi del significato secondario, figurato e dispregiativo, di “usuraio, profittatore” per indicare chi “succhia” via i soldi dalle mani dei debitori (in dialetto piacentino si direbbe *sügamàn, cioè “asciugamani” e per traslato “imbroglione”), deriva da una lettura forse un po’ superficiale dei due capoversi sopra citati, che vengono interpretati come se il celebre Arpinate (o la moglie Terenzia od entrambi) dovesse restituire rapidamente un prestito ottenuto dagli Oppii di Velia ad interessi usurari e che costoro lo stessero vessando, sebbene il testo non sia esplicito a riguardo, per il timore di perdere il proprio capitale a causa delle incipienti guerre civili. Tale significato sarebbe stato adeguato per strozzini che avessero preteso elevati tassi d’interesse (le XII tavole prevedevano un interesse annuo legittimo di massimo l’8%, come ricordato in questo interessante articolo) e fossero ricorsi a minacce per la relativa esazione (ricordo l’istituzione del nexum, che comportava la perdita della condizione di uomo libero per debiti e la conseguente schiavitù al servizio del creditore).

Che il denaro venisse paragonato al sangue lo si può desumere anche da un passo dello storico latino Valerio Massimo (I sec. a.c – I sec. d.c.) nella sua opera “FACTORVM ET DICTORVM MEMORABILIVM LIBRI IX“, in cui vengono raccolti detti memorabili:

“4.8.3 In Q. quoque Considio saluberrimi exempli nec sine paruo ipsius fructu liberalitas adnotata est. qui Catilinae furore ita consternata re publica, ut ne a locupletibus quidem debitae pecuniae propter tumultum pretiis possessionum deminutis solui creditoribus possent, cum centies atque quinquagies sestertii summam in faenore haberet, neque de sorte quemquam debitorum suorum neque de usura appellari a suis passus est, quantumque in ipso fuit, amaritudinem publicae confusionis priuata tranquillitate mitigauit, opportune mirificeque testatus se nummorum suorum, non ciuilis sanguinis esse faeneratorem: nam qui nunc praecipue negotiatione delectantur, cum pecuniam domum cruentam retulerunt, quam inprobando gaudio exultent cognoscent, si diligenter senatus consultum, quo Considio gratiae actae sunt, legere non fastidierint.
Anche in Q. la liberalità del Concilio è stata ricordata come un sanissimo esempio, e non senza un piccolo frutto proprio. i quali, per il furore di Catilina, furono tanto atterriti dai pubblici affari, che non poterono neppure pagare il denaro dovuto dai ricchi ai creditori, i quali, per il tumulto dei prezzi dei loro averi, erano stati diminuiti, quando aveva in prestito una somma di centocinquanta sesterzi; era in se stesso, mitigava l’amarezza della confusione pubblica con la sua calma privata, testimoniando opportunamente e meravigliosamente di essere prestatore del proprio denaro, e non del sangue del cittadino; i ringraziamenti sono fatti, non stancatevi di leggere. (trad. mia)

Il problema della traduzione di “succo” in “sanguisuga” sta però nel fatto che, partendo addirittura da un hapax (sia sacco che succo sono tali) e da una interpretazione del testo nemmeno del tutto certi, ed invertendo il normale processo di derivazione dal semplice al complesso, propone prima un ipotetico significato secondario figurato, l’usuraio, profittatore e solamente dopo, sulla sola base di quella specifica lettura critica, anche se non del tutto arbitrariamente, risale al significato primario, la ventosa e la sanguisuga, per le quali il latino ha termini molto più utilizzati di succo,-onis nei testi che ci sono pervenuti: rispettivamente cucurbitula e hirudo/sanguisuga. Del resto, anche per esprimere il concetto di usuraio, Attico (o Cicerone) avrebbe potuto usare termini più comuni ed utilizzati anche da autori antichi ed attenti al lessico popolare e quotidiano come Plauto: fenerator, danista o tocullio, ma usandoli evidentemente non avrebbe potuto costruire l’indovinello (o, nel caso di Cicerone, rispondere con la medesima parola scritta da Attico).

Dei due capoversi di queste lettere ciceroniane esiste però anche un’analisi più approfondita in “Una nota sugli Oppii di Velia e il divorzio di Cicerone“, Koenraad Verboven, (2001) LATOMUS, dove, senza prendere posizione tanto tra saccones e succones quanto piuttosto sul significato da attribuire ad entrambe le parole, si cerca di spiegare che le cose tra Cicerone e gli Oppii potrebbero essere andate in modo diverso per arrivare a capire il possibile motivo per cui Cicerone divorziò da Terenzia.

Secondo il Verboven, per una serie di motivi ben argomentati nella sua Nota, che includono anche passi di altre lettere nei quali Cicerone torna sull’argomento ed alla lettura della quale rimando, non solo non vi sono motivi evidenti per pensare che Cicerone fosse stato il debitore, ma addirittura sarebbe logico pensare che fosse stato vero il contrario: egli, o più probabilmente Terenzia, sarebbe stato il creditore. In questo caso Attico con il termine saccones/succones non avrebbe quindi attribuito agli Oppii la qualifica di arcigni usurai, quanto piuttosto quello di debitori pervicacemente insolventi. Infatti, se è vero che nulla vieta di pensare che gli Oppii fossero comunque ricchi banchieri e forse anche feneratores, nulla lo afferma esplicitamente e non è possibile sapere quale fosse la fonte della loro eventuale ricchezza. Erano forse ricchi medici? L’utilizzo di succones sarebbe così doppiamente giustificato nell’ipotesi che propongo, come cercherò di dimostrare nei passi successivi; oppure erano produttori di vino (saccus vinarius, per filtrare il mosto), frumento (saccus frumentarius) o trasportatori di merci insaccabili (ad saccum andavano i facchini), come la derivazione di sacco,-onis da saccus,-i potrebbe lasciar pensare? Allo stesso modo non si può escludere con certezza che la crisi seguente alla guerra civile non li avesse impoveriti al punto di non poter restituire un eventuale prestito, cosa che in quel periodo tormentato accadde a molti benestanti come loro.

Il professore, pur ricordando che “la lettura tradizionale è uno sprezzante saccones“, cioè un “moneybags, ricconi” secondo lui derivato ad hoc da saccus,-i, sembra tuttavia considerare accettabile anche la spiegazione dell’indovinello giocato sulla corrispondenza tra oπός e succus con il derivato succones, che paradossalmente aggiungerebbe più senso rendendo l’enigma forse meno difficile da sciogliere se ci si concentra sul nomen Oppii. Tuttavia Cicerone dichiara di non aver capito subito il gioco di parole di Attico ed anzi di averci sudato su parecchio prima di decifrarlo, quasi si trattasse del misterioso numero fatale platonico (a cui Attico potrebbe aver fatto riferimento sia per la grecità di Platone in accordo con il parallelismo oπός>succus, sia per aggiungere un ulteriore doppio senso sull’esatta entità della somma dovuta nel caso fosse stata pari a quel numero: 216). Naturalmente si può anche pensare che l’indovinello riguardasse soprattutto la cifra in gioco (“…et cum Terentiae summa congruebant...”) e che quindi Attico non avesse messo troppa attenzione nel nascondere l’identità dei veliensi, ma il testo sembra proprio indicare la centralità del gioco su oπός/Oppi: infatti al grande oratore, sebbene conoscesse perfettamente il greco, potrebbe essere sfuggita in prima battuta la complessità del costrutto, ma: “una volta trovato il bandolo della matassa, il resto diventa chiaro e va d’accordo con il totale di Terenzia…” (Quo aperto reliqua patebant et cum Terentiae summa congruebant...), con ciò lasciando intendere che la soluzione dipese interamente dalla parola usata da Attico per definire gli Oppii (quo aperto è riferito ad aenigma tuum…saccones/succones dices).

Verboven sostiene che suc(c)o,-onis inteso come sanguisuga, profittatore sarebbe un nomen agentis improbabile perché derivato dal verbo sugo,-is in modo atipico, mentre più probabilmente si tratta di una derivazione “ad hoc” (cioè inventata da Attico stesso) dai termini succus o succosus (sul modello derivazionale di bucco,-onis da bucca,-ae e di sacco,-onis da saccus,-i) e col significato di qualcosa di succoso, che possiede molto succo e quindi, per traslato, ricco, ma non necessariamente usuraio (come viene tradotto in Gaius Petronius Arbiter, Satyricon, 38, 6), senza però inficiare il gioco di parole, che si intuisce esservi stato nella risposta di Attico, tra Oppios ed oπός>succus. Di tali giochi vi sono esempi anche in altre lettere di Cicerone, dimostrando che i due corrispondenti con quelli si dilettavano abitualmente nello scriversi.

Inoltre aggiunge che tuttavia, se proprio si vuole leggere succones come “sanguisughe, profittatori“, non bisogna dimenticare che Attico, ricchissimo e forse fenerator egli stesso, nipote ed erede dell’immensa fortuna dello zio materno Quinto Cecilio a sua volta fenerator, difficilmente avrebbe avrebbe usato quel termine con questo significato sprezzante/irrisorio parlando di altri feneratores come lui, mentre lo avrebbe trovato più appropriato per dei debitori fraudolenti, aumentando così le probabilità che gli Oppii fossero davvero tali.

Apparentemente, in base alla conclusione del Verboven, decadrebbe il significato figurato di sanguisuga, profittatore come conseguente ad una derivazione dal verbo sugo (nomen agentis che esprimerebbe l’azione di suzione tipica delle sanguisughe) a vantaggio di quello di ricco come derivante dall’aggettivo succosus (che esprime una qualità del soggetto), ma così l’indovinello avrebbe perso il “mordente” di un significato nascosto sprezzante, derisorio o ingiurioso, cioè avrebbe perso il motivo per inventarselo. Non bisogna inoltre dimenticare che Cicerone espresse la volontà di pubblicare, probabilmente a fini politici per difendere le ragioni del proprio comportamento ed attaccare gli avversari, il grosso del suo carteggio mentre era ancora in vita.

Per questo mi sembra di non poter escludere in modo assoluto che il termine, se non fosse stata una creazione di Attico, potesse avere entrambi i significati ed anche altri, magari appartenenti più ad uno slang plebeo, un latino volgare, da sempre inesauribile deposito proteiforme di varianti semantiche del lessico, ma non sempre emergente nella lingua letteraria. Del resto la critica conferma che nell’epistolario, a riprova della familiarità esistente tra i due amici, venga impiegato uno stile colloquiale e spontaneo: il sermo cotidianus di cui Cicerone stesso parla.

A favore della soluzione di Verboven vi è dunque certamente la logica delle sue argomentazioni, ma a favore del fatto che succo,-onis potesse indicare anche la ventosa/sanguisuga (a prescindere dalla derivazione da sugo o da succosus ed aggiungendo inoltre il significato che proporrò sotto) e quindi, per traslato, l’azione di succhiare i soldi (del debitore che non restituisce il prestito o del creditore che si comporta da strozzino, a seconda della lettura critica che si ritiene corretta), ci dev’essere stata proprio la possibilità di utilizzare una parola che rappresentasse meglio il caleidoscopio semantico che il gioco di parole di Attico implica: parallelismo fonetico-semantico, ricercatezza erudita nel creare tale parallelismo, pertinenza situazionale e molteplicità di significati in grado di contenere anche quello più appropriato, forse difficilmente individuabile ed in prima lettura.

Di sacco,-onis forse si potrebbe dire la stessa cosa, ma il relativo parallelismo con oπός/Oppios, la cui apparente insussistenza spiegherebbe forse paradossalmente ancor meglio la difficoltà con cui Cicerone risolse l’indovinello, sarebbe stato possibile e sensato solo nel caso che gli Oppi fossero stati produttori di qualche succo che avesse bisogno di essere filtrato (saccus), come tipicamente si fa con il vino, e questo difficilmente riusciremo mai a saperlo. Non è da escludere che il termine sacco,-onis, nelle intenzioni di Attico creato ad hoc per l’idovinello, potesse indicare un ladro, un borseggiatore, ma mancano altri riferimenti e le parole con cui normalmente il ladro ed il saccheggiatore vengono indicati in latino classico sono altre.

Resta il fatto che a rendere tutto così ambiguo e di difficile interpretazione è soprattutto l’assenza del testo delle lettere scritte da Attico, in particolare quella contenente la forma esatta dell’enigma, che Cicerone infine disvela non senza restituirci una domanda che resterà senza risposta: che cos’è esattamente “il resto” così intimamente collegato a saccones/succones e che “diventa chiaro e va d’accordo con il totale di Terenzia”?

Ventosa

Assumendo di aver dimostrato (o per lo meno di non poter escludere) che con buona probabilità la parola fosse succo,-onis e che, affinchè l’indovinello riuscisse ostico prima e divertente poi, i suoi significati fossero almeno due (se non di più) dei quali uno almeno più usato degli altri e forse non immediatamente associabile agli Oppii, propongo la mia scelta personale, opinabile ma non impossibile, di interpretazione del significato del lemma formante il gentilizio etrusco Sucu/Zuχu passando attraverso il possibile significato del termine latino corrispondente e formante del gentilizio Succonius.

Riassumendo:

Suc(c)o,-onis = “ventosa, apparato succhiatore” e “sanguisuga”: col primo termine (ing. bloodletting cup) si intende uno strumento usato per applicare la pratica della coppettazione, che aveva la forma di una coppetta che veniva realizzata nell’antichità, e tutt’ora presso popoli primitivi, utilizzando corna scavate o piccole zucche con un foro all’estremità, attraverso il quale veniva succhiato fuori il sangue in seguito a scarnificazioni eseguite con un coltello. Non a caso in latino la ventosa si traduce con il termine cucurbita o cucurbitula = “zucchetta”, anche in un’epoca in cui non si usano più zucche vere e proprie ma sostituti di metallo o vetro, di cui parlano in un’ opera Galeno ed in un libro sulla medicina Aulo Cornelio Celso. Allo stesso scopo medicinale venivano impiegate probabilmente da molto più tempo (la prima immagine risale ad un dipinto egizio di 3500 anni fa, la prima citazione in un testo medico è di Nicandro, nel II sec. a.C.) anche le sanguisughe, il cui nome scientifico è Hirudo medicinalis proprio per il loro utilizzo terapeutico. Forse, a causa di questo, la stessa parola, con l’interpretazione estensiva di profittatore, succhiasoldi, potrebbe essere stata usata da Attico per il suo indovinello.

Proprio questa interpretazione estensiva consente anche a me di proporne un’altra, la mia, non registrata da alcun vocabolario e quindi opinabile e criticabile: il nomen agentis dello specialista medico che utilizzava professionalmente le (zucche) ventose e le sanguisughe per praticare la coppettazione ed i salassi: il flebotomista.

Se suc(c)o,-onis si potesse davvero tradurre con “ventosa” (ottenuta oltretutto dalle zucche con le quali condividerebbe l’etimologia, come ho ipotizzato nella pagina SUCUS) e con “sanguisuga” allora lo Zuχu/Sucu, che verrà poi tradotto con Succonius, avrebbe potuto essere un (sacerdote?) medico/guaritore, colui che “estraeva il succo (sangue)” e praticava la terapia con le zucche-coppette e con le sanguisughe: il salasso, una tecnica chirurgica o, per meglio dire, cerusica, che all’epoca, ma anche fino al XIX secolo, era impiegata in moltissimi casi nella convinzione di poter curare un notevole numero di patologie, praticamente una panacea, e che inoltre era così antica ed importante da indurre gli epigoni di Asclepio ad elevare le cucurbitulae ad emblema e simbolo della professione medica stessa. Il ritrovamento nel cosiddetto relitto di Pozzino di una di queste ventose in bronzo, presente nel corredo del medico di bordo della nave etrusca naufragata circa nel II sec. a.C. nel golfo di Baratti (LI), testimonia la conoscenza della pratica anche presso gli Etruschi. Esistono inoltre diverse statuette etrusche raffiguranti un aruspice, sacerdote specificamente votato all’interpretazione dei segni secondo le regole dell’Aruspicina, che indossa un berretto la cui foggia è molto simile ad una zucca.

Obiezioni

Volendo prevenire le maggiori obiezioni alla mia ipotesi interpretativa, ne faccio qui un breve elenco con le relative controbiezioni.

1) Naturalmente, primariamente mancando nel repertorio dei testi latini antichi l’interpretazione che propongo, non posso avere la certezza della bontà della mia ipotesi; ma l’assenza di una prova non è la prova di un’assenza.

“Pare infatti davvero riduttivo, una sorta di “pregiudizio filologico”, formulare etimi soltanto sulla base di ciò che è attestato, vale a dire solo su una parte del patrimonio lessicale di una lingua, la cui stesura scritta avviene (sempre ammesso che avvenga integralmente) nel corso di molti secoli.” (“ITALIANO ZUCCA: UN’ETIMOLOGIA IMPOSSIBILE?“, prof.ssa Rosa Ronzitti Università di Genova, Romance Philology, vol. 68, Fall 2014)

2) Inoltre è improbabile che esistesse una figura professionale medica specializzata solo nella pratica del salasso, dato che ogni medico che si fosse voluto definire tale avrebbe dovuto essere in grado di eseguirne uno correttamente; tuttavia non è impossibile, soprattutto in tempi molto remoti in cui la medicina si confondeva con la religione e la magia, che la figura del medico o del sacerdote guaritore fosse perfettamente sovrapponibile a quella della pratica medica per eccellenza, il salasso, come dimostra forse il caso dell’inglese leech.

3) Ma ciò che più potrebbe rendere improbabile la mia ipotesi è soprattutto la mancanza di qualsiasi utilizzo del lemma in opere dedicate propriamente a questa pratica da parte di famosi medici del mondo antico, come Celso e Galeno (dove, come ho già scritto, per indicare le ventose si utilizzava la parola cucurbitulae). Suc(c)o,-onis però potrebbe anche essere stato un termine più antico, ormai troppo legato a procedure superstiziose superate dalle nuove conoscenze mediche (tipo l’italiano medicone, figura a metà tra il medico e l’esorcista, molto ricercata e rispettata nella civiltà contadina dei secoli passati, che era solito accompagnare le pratiche terapeutiche con formule magiche ed amuleti) e giunto già desueto al momento della redazione in latino delle più importanti opere di scienza medica, tutte successive alla nascita di Cristo, in una lingua letteraria e tecnica ben codificata che non rifletteva più perfettamente quella parlata (un po’ come avvenne con il termine inglese leech =”medico, guaritore” che cadde in disuso già nel XV secolo e successivamente, nel breve volgere del XVIII secolo, passò dall’essere impiegato per i medici all’esserlo per i veterinari, fino a scomparire del tutto nel secolo successivo).

Potrebbe anche darsi che, essendo il termine passato ormai ad identificare nella vulgata gli strozzini, in sede letteraria non venisse più usato, per riguardo nei confronti dei medici flebotomisti, almeno nelle opere letterarie.

4) Devo ammettere poi che Cicerone, nella sua lettera VII, 13a al capoverso 1, potrebbe aver usato proprio il termine saccones, come da tradizionale lettura critica, o per ripetere le esatte parole di Attico, che in tal caso avrebbe inventato un gioco di parole diverso da quello che prevede la corrispondenza Oppios>οπος>succus, facendo così decadere del tutto qualsiasi attestazione scritta del lemma succo,-onis; oppure per render evidente all’amico di aver capito a chi egli si riferiva precisamente, senza tener conto di parole eventualmente diverse usate da Attico nell’indovinello. Oppios enim de Velia saccones dices/dicis si potrebbe tradurre (forse un po’ troppo liberamente) con: “(col tuo indovinello) infatti tu (intenderai/intendi) dire quei ‘ricconi/banchieri’ Oppii da Velia” invece di (più rigorosamente) “gli Oppii infatti da Velia ‘ricconi/banchieri’ chiamerai/chiami”.

Tuttavia, più che in ognuna di queste giuste obiezioni, la debolezza della lettura succones risiede nel fatto che il lemma si troverebbe solo in questo testo, e quindi la sua traduzione per via induttiva in “ventosa, sanguisuga” resterà sempre po’ arbitraria poiché non ha ulteriori riscontri sul significato primario ipotizzato (ma la stessa debolezza si potrebbe addire anche a saccones).

sAccones

Detto tutto ciò, uno dei manoscritti più antichi e completi, il Mediceus 49.18 scritto nel 1393, facente parte della collezione di Coluccio Salutati e conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, presenta a pagina 119v la glossa Oppiorum (abbreviato in oppiorû) ed a pagina 120r la forma sAccones:

               
Fig.1. Pagine 119v e 120r del manoscritto Mediceus 49.18.

Un altro manoscritto, il codex Landianus 8 del XIV-XV secolo, conservato presso la Biblioteca Civica Passerini Landi di Piacenza, conferma la forma riportata nel Mediceus, ma non presenta la doppia C: sacones invece di saccones; inoltre le parole scritte a caratteri greci nel Mediceus, in questo manoscritto lasciano lacune in bianco. Questa discrepanza è curiosa poiché la critica ritiene che anche questo manoscritto discenda dalla medesima fonte archetipica Ω, ma se così non fosse potrebbe essere dovuta alla trascrizione di un differente codice di origine nel quale le parole scritte in caratteri greci fossero state incomprensibili, mantenendo però la forma con la A rafforzerebbe l’ipotesi proposta dalla lettura tradizionale.


Fig.2. Pagina 112v del manoscritto Landianus 8.

Infatti alcuni dizionari come ad esempio l’Oxford Latin Dictionary alla voce succo,-onis, rifiutando la lettura con la lettera U, rimandano alla voce sacco,-onis, aggiungendo come congettura (cj. l’abbreviazione usata nella voce dell’ OLD) il fatto che, se si trattasse di una U invece che di una A, allora succo,-onis avrebbe avuto la sua origine dall’aggettivo succosus,-a,-um, di cui erediterebbe il senso. Stessa cosa fa il Calonghi nel volume Latino-Italiano, anche se poi nel volume Italiano-Latino non si trova la voce corrispondente.

Come nota a margine aggiungo che Sacco,-onis potrebbe inoltre essere a sua volta all’origine del gentilizio Sacconius (che potrebbe costituire un punto di partenza per una ricerca sul cognome italiano Sacconi e forse anche Zacconi):

135. Sacconius. zaconio MF 153, zaconiai MF 154 (faliscus gen. or dat.). Latin Sacconius, an adaptation of Etruscan Σaχu (σaχu CI 1.2499, 1.2500, Pe 1.1175, σaχus OA 2.40, σaχus Pe 1.423, σaχus Cr 2.40, σaχusa CI 1.1911).(The Latin Dialect of the Ager Faliscus: 150 Years of Scholarship, Volume 1, Gabriël C. L. M. Bakkum, ed. Amsterdam University 2009)

In questo caso esistono almeno due personaggi, Caius Sacconius Varro ed M. Sacconius M.L. Antus, ed un fundus poi diventato quartiere di Busto Arsizio (VA), Sacconago. Se non si tratta di una traduzione solamente alfabetico/fonetica, il lemma latino più simile a quello etrusco è sacco,-onis = “riccone e/o intascatore, usuraio“, e riesce difficile pensare che un simile “soprannome” possa essere stato scelto come gentilizio per un’intera stirpe, ma anche il Pittau lo indica nel suo Dizionario comparativo latino-etrusco, ed. EDES, 2009:

sacco,-onis «usuraio» da confrontare con l’antrp. etr. Saχu (DETR 360) (suff. –on-). Vedi Sacco.
Sacco,-onis, Sacconius antroponimi (RNG) da confrontare con quello etr. Saχu (DETR 360) (suff. –on-). Vedi sacco.

Sacco in latino è anche un verbo, sacco,-as,-avi, saccatum, saccare, che significa “filtrare, colare”, (usato anche da altri e da Plinio il vecchio nel suo Naturalis Historia , vd. Plin. 18, 7, 17, § 77 ; 29, 2, 10, § 35 ; 33, 6, 34, § 104 al.) e quindi il sostantivo da esso derivato potrebbe essersi riferito al nomen agentis di chi, per mestiere, filtrava liquidi, riempiva, trasportava o produceva sacchi, produceva succhi filtrati, etc.

Sebbene il Mediceus sia il più antico dei manoscritti più completi, il Di Spigno sostiene che:

“Rimane ragionevolmente il più antico ed il più attendibile dei manoscritti della sottofamiglia Δ (discendente come la sottofamiglia Σ, di cui fa parte il codex Landianus 8, dall’archetipo comune Ω. Nota mia), ma risulta altrettanto ragionevolmente che non bisogna spingersi troppo avanti nel tesserne le lodi, fino al punto da asserire che rappresenti un apografo diretto del codice che Petrarca scoprì a verona nel 1345.”

Leech

A venire parzialmente in soccorso alla mia ipotesi c’è una prova indiretta costituita dalla parola inglese leech, che significa sia “sanguisuga” sia “medico, guaritore” (sebbene termine arcaico ed ormai decaduto) e costituisce un piccolo enigma per i filologi anglosassoni. La complessità del problema delle origini di questo lemma è testimoniato dalla quantità di posizioni diverse di vari esperti che oscillano tra un’ipotesi polisemica ed una omofonica (riassunte nell’articolo della professoressa Toupin, vd.sotto).

Secondo una paraetimolgia (folk etymology) polisemica l’attività principale che anticamente identificava un medico era l’impiego a scopo curativo delle sanguisughe (esiste in ambito anglosassone il calembour “Leeches use leeches”) o comunque il frequente impiego del salasso: la stretta sovrapposizione tra operatore medico e strumento terapeutico avrebbe generato per metonimia il doppio significato del lemma, fenomeno semantico che si è verificato anche in altri termini indicanti il medico in inglese. Alcuni dizionari etimologici seguono questa ipotesi e presentano una singola voce con i due significati.

Secondo l’ Online Etymology Dictionary (OED) invece, con un’argomentazione più accurata, si tratterebbe solo di una coincidenza etimologica che ha generato un’omofonia; proponendo per le due identiche parole un’origine diversa il dizionario inserisce due voci distinte (la seguente inversione dell’ordine dei lemmi rispetto all’ordine in cui si trovano aprendo il link è stata applicata da me per non creare confusione con l’ordine seguito dalla prof.ssa Toupin nel suo articolo):

1) Leech1 = “medico” < medio inglese leche1 < antico inglese læce1 (presente in un testo di medicina del 900 d.C., il læce-bōc = “libro di prescrizioni mediche”, letteralmente antico inglese “medico” + bōc = “libro”, ovvero il  Leechbook di  Bald, e nel Lacnunga), passando attraverso l’antico danese læke fa pensare che leech1 derivi dal protogermanico *lēkijaz = “medico, incantatore, colui che pronuncia formule magiche“, suggerendo così che in origine le parole fossero distinte, ma che si siano assimilate attraverso l’etimologia popolare.

2) Leech2 = “sanguisuga” < medio inglese leche2 < antico inglese læce2 = “verme acquatico succhiasangue” (prima del 900 d.C.);

“Commonly regarded as a transferred use of n.1; this is plausible, but the forms Old English (Kentish) lyce (>early Middle English liche), of unknown origin but with a cognate in Middle Dutch lieke, suggest that the word was originally distinct, but assimilated to læce n.1 through popular etymology”; (“comunemente considerato un significato trasferito dal lemma n.1; questo è plausibile, ma le forme in Antico Inglese (kentiano) lyce (>antico Medio Inglese liche), di origine ignota ma con una parola cognata nel Medio Olandese lieke, suggerisce che la parola fosse originariamente distinta, ma assimilata a læce1 attraverso un’etimologia popolare”, trad. mia)

Nonostante ciò la linea etimologica è così esile che, riguardo a leech1, il professor Guus Kroonen nel suo “Dizionario etimologico di proto-germanico” (serie di dizionari etimologici indoeuropei di Leida; vol. 11), Boston Brill, Leida (2013) , pagina 331, può affermare che:

Di solito si presume che (*lēkijaz) sia stato preso in prestito dal proto-celtico (confrontare Old Irish líaig = guaritore“), ma “se il significato originale (di *lēkijaz) fosse invece “bloodletter” (= “qualcosa o qualcuno che fa scorrere il sangue”, traduzione mia), allora la parola può sicuramente essere collegata a pge. *lekaną = “to leak, drenare, perdere” (ciò che in effetti fa la sanguisuga quando si attacca al suo ospite, nota mia), così implicando invece un’origine proto-germanica“.

Affermazione che lascia spazio alla possibilità che l’origine di entrambe le parole, seppure diversa, fosse pur sempre connessa in modo difficilmente districabile (del resto anche la sanguisuga si “lega” al suo ospite, come il medico al paziente), come dimostrano l’esito comune in leech ed una ricerca effettuabile sul “Proto-Indo-European Etymological Dictionary“, Julius Pokorny, edizione rivista dall’Indo-European Language Revival Association nel 2007.

Infatti, a seguito della nota di Kroonen, l’etimo protogermanico lēkijaz per “medico, guaritore” potrebbe derivare da:

*leĝ- da cui origina anche il gra. λέγω = “parlare, raccogliere, conoscere” e “adagiare, mettere a letto, fare coricare, fare dormire” [cit. dal Pokorny: Gmc. *lēkja- “Besprecher, physician, medicine man” in Goth. lēkeis, O.Ice. lǣknir, O.E. lǣce, O.H.G. lüchi; in addition O.H.G. lüchin n. “healing”, M.H.G. lüchenīe f. “Besprechen, Hexen”];
*leg-1 = “gocciolare, trasudare, defluire, to leak” attraverso pge. *lekaną
 o *lakjaną (come concede in via ipotetica il Kroonen);

ma anche da:

*leg-2 = “prendersi cura di qualcosa” gra. λέγω;
*leiĝ- = “legare, fare sacro giuramento” lat. ligō,-are, nel senso di pronunciare formule magiche in grado di “incantare” gli spiriti maligni che provocano la malattia o di “attivare” i medicamenti che vengono somministrati; ma anche nel senso di legarsi, attaccarsi all’ospite come fa la sanguisuga.
*leiĝh-/sleiĝh- = “leccare, inumidire” gra. λείχω lat. lingō,-ere;
*leikʷ- = “lasciare, perdere” gra. λείπω lat. linquō,-ere;
*lep-1 = “parlare, discorso” [cit. dal Pokorny: O.Ind. lápati ‘chiacchiere, sussurri, lamenti, talks”, rápati ds., pam. lówam, lewam “rede, spreche, say”, Pers. lüba, lüwa ‘adulazione”. Maybe truncated Alb. *lápati, llap “chat, talk, speak”, llaf “word, speech”. It seems that from Root *plab-: (balbettare, etc.) derived Root *lep-1: (expr. Root), presumably as *lēpagi- “incantatore”, O.Ir. līaig (disyllabic), gen. lego (*lī-ago) “physician, medicine man” (in nessun caso al Goth. lēkeis)].

Peggioramento semantico

Con un recente articolo del settembre 2018, apparso sulla rivista di studi inglesi Anglica, dell’Università di Varsavia, “Practitioner from Instrument: Metonymy in Names for Physicians in the History of English“, Fabienne Toupin, docente di linguistica inglese dell’ Université François-Rabelais de Tours, si è occupata nello specifico del modo in cui, nel corso dei secoli, i vari termini con cui venivano chiamati i medici in Inghilterra si siano tutti metonimicamente evoluti dal nome degli strumenti medici o dalle pratiche da essi impiegati nello svolgimento delle loro funzioni. L’ipotesi, alla cui completezza rimando con la lettura dell’articolo, che la professoressa propone per spiegare l’evoluzione di leech si può riassumere così:

“Basing my decision mainly on the criterion of the PIE root, I will adopt the homonymy hypothesis and suggest the following chain of linguistic events: an original homonymy between leech1 and leech2 in OE gave rise to a two-way transfer of meaning through popular etymology, eventually resulting in polysemy…Both lexical items then developed a form of polysemy: leech2 thus became ‘the healer’ (Haubrich 1997, 124, quoted in Sylwanowicz 2003, 156), and conversely leech1 took on the meaning of ‘blood-sucker’ from the 15th century onwards (Sylwanowicz 2003, 156).”

Cioè concorda sostanzialmente con OED, ed aggiunge che il motivo per cui questo avvenne è dovuto ad un fenomeno di peggioramento semantico, cioè un fenomeno linguistico per cui emerge e prevale un’accezione negativa di un termine che prima identificava qualcosa di positivo o di autorevole e che normalmente segue ad un peggioramento nella considerazione comune dell’oggetto dal lemma identificato (nel caso specifico di leech l’inizio della caduta di valore coincide più o meno con l’istituzione di corsi universitari specifici ad Oxford e Cambridge, che faranno fare ai nuovi rappresentanti della classe medica un salto di qualità rispetto ai precedenti guaritori non laureati, almeno sulla carta):

“The value assigned to the word leech1 can thus be said to have moved downward over the centuries, as the attitude of the speech community to physicians (the referent of leech1) altered negatively. This semantic process is known as pejoration (McMahon 1994, 179).”

Questa spiegazione per il lemma leech corrisponde esattamente alla mia ipotesi sul lemma succo,-onis e predispone favorevolmente alla possibilità che sia successo anche in altre lingue, in particolare in etrusco e latino con la radice suc-/zuχ-.

Fibule

A corollario dell’ipotesi che segue la sanguisuga è interessante aggiungere un tassello forse casuale, ma rivelatore della possibilità che l’anellide avesse anche un significato simbolico nell’immaginario antico ed etrusco in particolare. Nei corredi di moltissime tombe è stata trovata un’ingente quantità di fibule, elemento indispensabile dell’abbigliamento antico per la loro funzione di sostegno del tipo di tuniche utilizzate sia da uomini che da donne, ma anche accessorio da abbellire con forme e materiali diversi per rendersi più eleganti e distinti agli occhi dei consimili. Da un certo momento in poi (VIII sec. a.C. circa) e sembra soprattutto da Vulci e Tarquinia, nel corso della sua lunga evoluzione, una delle forme a diffondersi di più è quella che gli archeologi definiranno “a sanguisuga” per la notevole somiglianza con il fastidioso e curativo animaletto. Naturalmente si tratta di una convenzione moderna e non è affatto sicuro che anche gli antichi orafi etruschi volessero intenzionalmente ispirarsi alle sanguisughe nell’atto di fondere ed incidere il metallo che poi sarebbe diventato sostanzialmente una grossa spilla da balia ma, se invece l’intenzione ci fosse stata, si potrebbe credo tranquillamente ipotizzare che la scelta non fosse unicamente estetica e che avrebbe potuto ritrarre l’anellide per il suo valore simbolico, sia come “animale utile” sia con senso apotropaico. Che potesse avere un significato simbolico sembra poter essere testimoniato dal dato statistico che si rileva per un certo periodo in cui questo tipo di fibule e quelle, simili, a navicella vengono ritrovate quasi esclusivamente in sepolture femminili, mentre in quelle maschili se ne ritrovano prevalentemente a forma di drago.

Nella prossima ed ultima pagina affronterò la ricerca dell’origine più remota della radice.