SUCUS

Un’ essenza.

Dopo aver documentato in ZUΧU la probabile corrispondenza tra la forma etrusca e quella latina dell’antroponimo ed aver stabilito l’intraducibilità partendo dalla prima, ne tenterò la traduzione in italiano partendo dalla seconda.

Premessa

Questa pagina sarà quindi dedicata alla ricerca dell’ipotetico significato del lessema zuχu/sucu che ha dato origine al gentilizio etrusco, e di cui non è possibile fare una traduzione diretta certa, passando attraverso la quasi certa corrispondenza con l’analogo gentilizio latino, di cui invece si può ipotizzare il significato con un certo grado di attendibilità, e che sarà poi portato da Roma e dall’Etruria sulle spalle di un ignoto colono fino alle colline piacentine della Gallia cisalpina e cispadana celto-ligure.

Corrispondenza

La corrispondenza è cosa diversa dalla derivazione etimologica: mette in relazione biunivoca due lessemi o due lemmi di due lingue diverse senza presupporre che uno derivi necessariamente dall’altro, ma comparandoli dal punto di vista fonetico e grafico, per cercare di stabilire se abbiano anche lo stesso significato rispetto a differenze più o meno marcate tra i due significanti sulla base delle rispettive ricorrenze nei vari contesti in cui vengono usate e del modo in cui variano, laddove invece l’etimologia stabilisce relazioni di derivazione orizzontale di uno o più lessemi, oppure verticale da una radice più antica ed ipoteticamente condivisa dalle lingue in esame. Utilizzando questa metodologia non si dà per scontata la parentela tra le due lingue, o per lo meno si può procedere nello studio senza l’ingombro di ipotesi extralinguistiche (archeologiche, antropologiche, storiche, etc.) che, almeno all’inizio, potrebbero influenzare l’opinione del ricercatore. I risultati così ottenuti devono poi, naturalmente, essere sottoposti al vaglio delle altre discipline (parole simili di lingue appartenenti a popoli geograficamente e temporalmente molto lontani hanno pochissime probabilità di essere correlate ed in questi casi ogni ipotesi di eventuale corrispondenza deve essere sostenuta da prove molteplici e solide).

Presupposti

Questo metodo ha tre presupposti necessari:

1) Che ci siano prove sufficienti del fenomeno di traslitterazione e traduzione degli antroponimi etruschi in altrettanti antroponimi latini: di questo fenomeno, ampiamente verificato e studiato, valga per tutti quanto documentato neLe iscrizioni bilingui etrusco-latine“, Enrico Benelli, ed. Leo Olschki 1994.

2) Che esista specificatamente un’iscrizione bilingue riportante il gentilizio in questione in forma etrusca e poi latina (nel caso di zuχu/sucu ancora da scoprire, ove fosse mai esistita) oppure, più genericamente, un contesto linguistico-culturale dove sia evidente la coesistenza e l’integrazione di elementi etruschi nel tessuto sociale di lingua latina (e viceversa) testimoniate dalla trascrizione di antroponimi etruschi secondo il sistema alfabetico/fonetico latino: questo è il nostro caso se si considera il falisco un dialetto latino, come sostenuto ne “The Latin Dialect of the Ager Faliscus: 150 Years of Scholarship“, Gabriël C. L. M. Bakkum, ed. Amsterdam University 2009 (come già documentato nella pagina ZUΧU).

3) Che, in tale contesto misto, esista almeno un’iscrizione riconducibile alla traslitterazione del gentilizio etrusco, come testimoniato dal CIE 8385 riguardante il caso già citato in ZUΧU di Poplia Zuconia.

Formula nominale

Nel periodo arcaico e fino al IX sec. a.C. la formula nominale era costituita da un singolo nome; dall’VIII-VII sec. a.C. (cioè dal momento in cui comincia a crescere il numero degli abitanti delle città etrusche in via di formazione ed affermazione e per questo diventa necessario distinguere meglio le persone) comincia però ad affermarsi una formula bimembre costituita da praenomennomen e quest’ultimo solitamente non derivava dal nome del padre, ma da quello di un predecessore che in questa fase aveva cominciato a costituire un punto di riferimento per la genealogia di un intero gruppo famigliare (“Etruschi: una nuova immagine“, a cura di Mario Cristofani, Hoepli), il che rende a volte più difficile individuarne l’origine etimologica. Larece Zuχus Mutus, risalente ad un iscrizione di fine VI sec a.C., è per ora il nome più antico ed inusualmente trimembre tra quelli che ho trovato.

Come ho già enunciato in precedenza, Zuχu/Sucu (ed i suoi derivati) è una parola che, al contrario di altre, ricorre quasi esclusivamente in quanto nomen (con le significative eccezioni di zuχne e zuχuna e zuci nei testi rispettivamente della Tavola Capuana, della Tabella di Santa Marinella e del Cippo di Perugia, e di śucri nel Liber Linteum, delle quali però non è possibile per ora fare una traduzione certa) e perciò, allo stato delle conoscenze attuali del lessico etrusco,

# non è dato sapere quale significato certo avesse a sé stante e precedente alla sua scelta come gentilizio per una o più famiglie.

Traslitterazione

Quando si parla di onomastica i livelli di traduzione dei nomi sono almeno due: uno è quello che riguarda la loro forma grafica (traduzione alfabetica e fonetica), l’altro è quello che riguarda il loro significato (traduzione letterale e semantica). Per esempio se si dovesse tradurre in italiano un cognome anglosassone come Power, la traduzione alfabetica potrebbe essere *Poveri, quella fonetica potrebbe essere *Pàueri/Pàveri (comparabili con il lemma in questione, ma lontana, la prima, dal significato originale e priva, la seconda, di significato se non si conosce l’antroponimo di partenza), mentre quella letterale sarebbe *Potere e quella semantica potrebbe essere *Sforza, *Potenza o *Potestà.

Nel caso di Zuχu/Sucu > Succonius il primo livello richiese la resa delle lettere dell’alfabeto etrusco in equivalenti lettere dell’alfabeto latino e falisco. Le minime mutazioni testimoniano il tentativo di rendere con segni grafici leggermente diversi la medesima scrittura e pronuncia, per cui YVYz / YcYs / uquz (scrittura sinistrorsa) cioè Zuχu/Sucu/Zuqu (ad ogni voce aggiungo come citazione le considerazioni sulla pronuncia che traggo da “La lingua etrusca“, Massimo Pittau, ed. Insula – 1997, non perché siano incontrovertibili, ma solo per dare un’idea dei temi in gioco):

z/S cioè Z/S, per questa lettera il falisco sceglie la Z ed il latino la S (pare fossero segni equivalenti nelle due lingue, ma il tema è ancora dibattuto) per conservare la pronuncia sorda della consonante iniziale: Z[t͡s] sorda come in marZo nel primo caso, ma non è certo e potrebbe anche trattarsi di una sonora S[z] come in roSa, ed S[s] sorda come in Sole nel secondo. Il tema delle sibilanti nella lingua etrusca è complesso e non ancora risolto e coinvolge le lingue indoeuropee che venivano parlate dai popoli che confinavano con l’Etruria le quali, com’è naturale, hanno interagito a volte influenzando altre venendo influenzate dalle scelte consonantiche e vocaliche reciprocamente attuate per trascriverle. In particolare le sibilanti possono essere pronunciate in molti modi diversi (s e z sorde e sonore, scempie e geminate, palatalizzate o meno etc.), ma i segni grafici scelti per rappresentare un’ identica pronuncia potevano essere differenti da popolo a popolo, anche da dialetto a dialetto, addirittura da scuola a scuola scribale, generando così la complessità della teoria necessaria a riconoscere sempre il valore fonetico corretto di ciascun grafema.

“…
§ 20. Quasi certamente la lettera Z indicava una consonante affricata sorda (ts o tz come negli italiani azione, marzo, pozzo); lo fanno intendere queste differenti scritture: Ramθa/Ramza «Ramta»; Uθste/Utzte «Odisseo»; ruz/rutzs «sarcofago»; ciz/citz «tre volte» (§ 73).

A seconda delle diverse località e dei differenti periodi storici non di rado la Z veniva usata al posto della S: Zalvi(e)/Śalvi/Salvie; Zatna/Śatna/Satna; Zemni/Semni; Zertur/Śertur/Sertur; Velzu/Velśu/Velsu (gentilizi); Selvanzl/Selvansl «di Silvano»; Utuze/Utuse «Odisseo»; zal/sal «due»; murs/murzua «urna/e».
§ 26. Nell’alfabeto etrusco risultano ben cinque differenti lettere che indicavano le consonanti sibilanti, a seconda del modo in cui queste venivano trascritte nei diversi luoghi e nei diversi tempi. Di queste cinque lettere quelle di gran lunga più usate sono s e ś. La prima s (a tre, quattro, cinque tratti) viene comunemente detta sigma, la seconda ś (a quattro tratti come la nostra emme M maiuscola, ma inclinata) viene comunemente ed anche impropriamente detta san o sade[i].
Sicuramente le lettere s ed ś segnavano e indicavano una differente pronuncia: e precisamente, con grande verosimiglianza, indicavano la distinzione e l’opposizione fonologica fra la sibilante normale (s; quella degli ital. seno, sito) e la sibilante “prepalatale sorda” (quella degli ital. scena e scimmia), come sembra che si possa dedurre dalle coppie di vocaboli etruschi husiur/huśur «ragazzi» e sianś/sanś «genitore».
Per il vero è stato anche prospettato che la differenza tra le due lettere etrusche indicasse la distinzione e l’opposizione fonologica fra la “sibilante debole” (quella dell’ital. casa) e la “sibilante forte” (quella dell’ital. cassa), come indurrebbero a ritenere le coppie etr. Carcusa/Gargossa, Cauślinisa/Cauślinissa, Papasa/Pabassa; Rasna/Ràssina (toponimo tosc. il secondo) e inoltre la differente scrittura di tre vocaboli latini di sicura origine etrusca: carisa/carissa «donna maliziosa», favisa/favissa «cella sotterranea dei templi», mantisa/mantissa «aggiunta». Senonché questa ipotesi, a nostro avviso, non regge, per il fatto che una tale differente pronunzia non sarebbe affatto realizzabile all’inizio di vocabolo e alla fine (ad es., tra Seθres, SSeθres e Seθress non si noterebbe alcuna differenza di pronuncia).
Purtroppo però, la distinzione ed opposizione, qualunque fosse, fra s ed ś risulta documentata in maniera esattamente opposta nell’Etruria settentrionale e in quella meridionale, ragion per cui coloro che volessero adeguarsi in maniera puntuale a una delle su indicate differenze di pronuncia della sibilante, prima di pronunciare un vocabolo etrusco che le contiene, dovrebbero chiedersi se questo risulti in una iscrizione rinvenuta nell’Etruria settentrionale oppure in quella meridionale…
D’altra parte nel presente siamo in grado di constatare, quasi come una regola abbastanza costante, quella per cui nel medesimo vocabolo le rispettive lettere delle due sibilanti vengono usate in maniera alternativa: se all’inizio o all’interno di un vocabolo ricorre la lettera di un tipo di sibilante, alla fine ricorre l’altra:
Seθreś/Śeθres «di Setre»; Śatnas/Satnaś «di Satano»; netśvis/netsviś «aruspice».
Questa però potrebbe essere solamente una norma grafica e non una norma fonologica, del tutto simile dunque a quella che noi conosciamo per la scrittura del greco classico fra i due tipi di s: all’inizio e nel mezzo del vocabolo si usa σ, alla fine si usa ς.
§ 27. Nell’alfabeto etrusco esistevano altre tre lettere che indicavano ancora le sibilanti, le quali venivano scritte rispettivamente con un quadratino includente una croce, col sigma a quattro o cinque tratti e con la X. Secondo la moderna convenzione esse vengono trascritte con la lettera s sormontata rispettivamente da una crocetta oppure da una cediglia o infine da un punto. Non si riesce ad intravedere in quale modo esattamente queste tre lettere corrispondessero a quelle già viste s ed ś…

u/Y qui la U rimane tale in falisco e latino (dove però può diventare anche O come in Socconius, vocale corrispondente all’omicron greca che l’etrusco ha nell’alfabeto, ma che non compare in nessun testo a noi pervenuto e che forse aveva il valore lungo di un’omega pronunciato chiuso simile ad una U) per conservare la pronuncia chiusa della vocale,

“…
§ 12. La lettera U, soprattutto in epoca recente, veniva spesso scambiata in tutte le posizioni con l’altra V (digamma) e ciò avveniva a causa della somiglianza di pronuncia dei rispettivi fonemi che esse rappresentavano e probabilmente anche per imitazione del latino (§ 19):Aule/Avle (prenome masch.); Lunceś/Lvnceś; Muras/Mvras (gentilizio); lautni/lavtni «domestico».”

* V/c/q qui le Χ/C/Q etrusche diventano C singola in falisco e C singola o doppia in latino per rendere una pronuncia dura e probabilmente aspirata dell’etrusco > KH (forse come la tipica gorgia toscana), il che potrebbe spiegare come mai, in secoli più recenti, il nostro cognome sia stato spesso scritto con la ch > Zuchoni in lingua ormai italiana (grafia però piuttosto diffusa in molti altri casi in cui compariva la velare occlusiva sorda C [k] anche davanti alle vocali posteriori A, O ed U). La variabilità di questo grafema potrebbe dipendere anche dal periodo storico (più arcaica la qQ) o dalle varianti locali della resa grafica di un medesimo fonema C sordo e/o aspirato.

“…
§ 17. In etrusco la lettera C indicava una consonante velare sorda, anche di fronte alle vocali /e/ ed /i/; quindi ce, ci si pronunciavano ke, ki.
Anzi – sia detto in generale – il valore delle due lettere C e K (kappa) era identico, per cui nella pronuncia ca, ce, ci, cu corrispondevano a ka, ke, ki, ku.
§ 18. Però si constata che nel periodo arcaico la C veniva privilegiata con le vocali /e/ ed /i/ (ce, ci), mentre il K veniva usato con la vocale /a/ (ka). L’altra velare sorda Q (coppa) veniva usata sempre di fronte alla vocale /u/, es. aliqu, alqu «dato-a» (però anche alcu), qutun «boccale», con una usanza che in seguito è entrata anche nella ortografia della lingua latina ed è rimasta perfino in quella italiana odierna. Anche questa antica usanza grafica degli Etruschi circa l’uso delle tre lettere C, K, Q dimostra in loro una particolare sensibilità acustica, dato che in realtà ce, ci [ke, ki] segnano una «velare prepalatale», ka segna una «velare palatale», mentre qu segna una «velare gutturale». D’altra parte in epoca recente questa usanza – che in effetti aveva una valenza fonetica ma non fonologica – è venuta meno e alla lunga ha prevalso in tutte le sequenze la lettera C.
§ 29. La lettera X, χ (khi maiuscola e minuscola), come già nella lingua greca, indicava una consonante velare aspirata, come si nota nella locuzione italiana la casa pronunciata alla maniera dei Toscani (cioè secondo la “gorgia toscana”; § 3): la khasa.
Come vedremo anche più avanti (§ 97), nella lingua etrusca la velare sorda c (k) e quella aspirata χ si scambiano fra loro senza alcuna opposizione fonologica, cioè senza alcuna differenza grammaticale né di significato (§ 97): sec/seχ «figlia»; enac/enaχ «poi»; menece/menaχe «diede(ro)»; zicu/ziχu «scrivano»; mulac/mulaχ «dono»; mlac/mlaχ; mlacaś/mlakas/mlaχas «donando un dono» (§§ 103,123).
Finora conosciamo un solo esempio di opposizione fra queste due consonanti: cis, ciś «di tre» ~ χis «di ogni, di tutto-a».”

u/Y qui la U finale diventa ON(-ius/-ia) sia in falisco sia in latino probabilmente perché la -u finale veniva pronunciata nasalizzata (UN Zuχun).

“…
§ 11. Le vocali della lingua etrusca sono solamente quattro: a, e, i, u, con mancanza dunque della /o/.

Circa quest’ultima vocale /o/ è rimarchevole il fatto che nei vocaboli greci entrati nell’etrusco essa viene mutata in /u/: greco Aχérhon > Acrum «Acheronte»; greco Érhōs > Erus «Eros, Amore»; greco kóthōn > qutun «boccale»; greco dorico ólpa > ulpaia «olpe»; greco dorico Promathéus > Prumathe «Prometeo»[x].
D’altra parte si intravede che, a seconda delle diverse località e dei differenti periodi storici, la vocale etrusca /u/ tendeva ad essere pronunciata come una /o/ lunga e chiusa, come è dimostrato sia da alcune tarde epigrafi etrusche scritte in lettere latine (ThLE¹ 379-391), sia dai seguenti doppioni latini corrispondenti oppure derivati da altrettanti vocaboli etruschi:
etr. Amuni, lat. Amunius, Amonius; etr. Clute, lat. Clutius, Clotius; etr. Cruśni, lat. Crusius, Crosius; etr. Cursni, lat. Cursenus, Corsinius; etr. Fulvena, lat. Fulvius, Folvius; etr. Muriaś, lat. Murrius, Morrius; etr. Plute, lat. Plutius, Plotius; etr. Prute, lat. Brutus, Protius; etr. Purce, lat. Purcius, Porcius; etr. Rusci, lat. Ruscius, Roscius; etr. ruma, lat. ruma «mammella», Roma «mammella» (§ 1) ed inoltre il tardo frontac «fulgurale»[xi] (§ 66/3).
Però resta il problema se la suddetta ambiguità stesse realmente nella pronunzia degli Etruschi od invece dipendesse dalla audizione dei Romani, che nel loro sistema fonologico avevano due differenti vocali velari, /o/ ed /u/.
Inoltre si intravede che almeno in certi casi la vocale etrusca -u finale veniva pronunziata nasalizzata (UN Zuχun) come dimostrano le seguenti connessioni e derivazioni (§§ 64,65):
greco Apóllōn > etr. Aplun, Apulu, Aplu «Apollo»
greco Xárhōn > etr. Xarun, Xaru «Caronte»
greco léōn > etr. leu «leone»
etr. Vetalu > lat. Vetulonia «Vetulonia»
etr. scurfiu > lat. scorpio,-onis «scorpione»
etr. suplu > lat. subulo,-onis «flautista»
etr. fulu, fuluni > lat. fullo,-onis «lavandaio»
etr. maru, marunuc > lat. maro,-onis «marone,-ico»”.

Almeno in questo caso particolare, la pronuncia dialettale piacentina del cognome Zucconi, Sücón [sykɔ́ŋ], sembrerebbe quella più conservativa del fenomeno.

 

Le diverse forme in cui furono scritte vocali e consonanti in etrusco dipesero anche dalle variabilità geografica e temporale che da tutti gli studiosi vengono riconosciute come tipiche di questa lingua, ma in questo caso è evidente che la traduzione alfabetica e fonetica in latino è perfettamente corrispondente all’originale etrusco. 

Per molti antroponimi forse questo primo livello di traduzione fu sufficiente durante il lungo periodo di passaggio di potere politico-militare dalle Lucumonie a Roma (o anche più profondamente di lenta assimilazione culturale) di singoli individui o famiglie, ed è assolutamente possibile che sia successo anche nel caso di Zuχu/Sucu > Succonius/Socconius con la forma latina a tradurre solo foneticamente la forma etrusca, senza che esistesse un qualche significato specifico equivalente tra la radice zuχ-/suc- etrusca e la radice suc-/soc- latina. Altrettanto possibile è che le due radici differissero solo per sfumature di significati ma, nonostante ciò, si sia privilegiata la traduzione letterale rispetto a quella semantica per una questione di riconoscibilità identitaria.

Il secondo livello potrebbe essere stato attinto qualora, al momento dell’integrazione di elementi della cultura soccombente in quella prevalente e per testimoniarne l’avvenuto riconoscimento sociale (per es. l’ottenimento della cittadinanza, in particolare dopo dopo la guerra sociale), gli interessati avessero voluto tradurre anche il significato letterale o semantico del gentilizio qualora ve ne fosse stato alcuno (oltre che di praenomen e cognomen, cfr. Le iscrizioni bilingui etrusco latine, di Enrico Benelli, ed. Olshky 1994). Vi è chi ritiene che questa scelta, tipica soprattutto delle classi emergenti ma adottata pure dall’aristocrazia da un certo momento in poi, potrebbe essere stata fatta anche solo al momento dell’inumazione nel predisporre l’epigrafe funeraria per “esibire” la propria cittadinanza pienamente romana.

Ziχu

Tipico è il caso del latino Scribonius (iscrizione bilingue: Q. SCRIBONIUS C. F 2vl zicu, ET Cl. 1.320, Chiusi, ed anche nome di una gens romana, tra le cui fila allignano Scribonia, la seconda moglie di Ottaviano Augusto, e Scribonio Largo, un noto autore latino di medicina), cioè scriba, scriptor = “scriba, scrittore” (derivante dalla proto-indoeuropea *(s)kreybh = “graffiare, strappare”), utilizzato per tradurre solo semanticamente l’etrusco Ziχu (dal verbo zic/ziχ = “scrivere”) invece che alfabeticamente, come sembra avvenire in altri attestati gentilizi quali Sicconius (Sicconius Veranus, CIL VI, 31088), Siccanius (regio Liguria, Demonte (CN): CIL V, 7860) e Sic(c)ius o Sicinius (Lucio Siccio Dentato, fondatore(?) di Sicignano degli Alburni (SA)). In quest’ultimi la radice sic- è la stessa che ha prodotto anche il lat. signum (protoitalico [*seknom] derivante dalla proto-indoeuropea *sek-/seyk- = “tagliare”) ma, per lo meno nella forma classica e letteraria, non ha originato, per esempio, un *sic(c)o,-onis che significhi “scrittore, scriba” (che tuttavia potrebbe essere stato presente nel latino sommerso): l’unico che si avvicini potrebbe essere signator,-oris = “firmatario, testimone”, ma non è attestato un identico gentilizio. Infatti, anche se non è detto che si tratti di una traduzione letterale, Scribonius lo si può considerare un equivalente sul piano semantico come riportato in vari studi, tra cui “Il verbo etrusco“, di Koen Wylin, ed. L’Erma di Bretschneider 2000, ed in “Etruschi: una nuova immagine a cura di Mauro Cristofani, ed. Hoepli 2000. Questo caso è particolarmente interessante perché il senso del verbo etrusco era già stato compreso attraverso un’analisi ermeneutica combinatoria dei testi in cui esso si trovava e l’iscrizione bilingue venne a confermare tale scoperta solo successivamente (e per questo esistono opinioni differenti che la vogliono ridimensionare nella sua importanza). In questo video una conferenza sul tema tenuta dal dottor Paolo Binaco, direttore del Museo Territoriale del lago di Bolsena, che ringrazio per l’aiuto nelle mie ricerche.

Sempre e solo per avere un’idea della molteplicità di casi in cui si trova la parola etrusca, senza per questo aderire necessariamente alle rispettive traduzioni proposte, cito dal Dizionario della lingua etrusca, ed. Dessì, 2005 del prof. Massimo Pittau:

ziχ «segno, disegno, firma», «scritto» (sost.), «libro»; Asi ikan zix akarai «Asio questo scritto facevo/faceva (?)» (su aryballos Poupé; Cr 0.4 – 7:3) (Ta 1.17). Vedi zic, zik, ziχina, ziχne.
ziχanace probabilm. «scrisse(ro), ha(nno) scritto», in preterito debole (in epoca recente sarebbe stato *ziχance); Raquvupi Vistθinas θa[v]hna mini Kaf[r]kana hi ziχanace «coppa di Vistinio per Rauntonia – *Carcanio qui (?) mi ha scritto» (su coppa; Cr 2.6, 6.1, X.1 – 7:p). Vedi ziχunce.
Ziχan[e] «Siccanio», gentilizio masch., da confrontare con quello lat. Siccanius (RNG) (su parete di sepolcro, REE 59,20). Cfr. Zicu, Ziχu.
ziχina probabilm. «segna(no). disegna(no), scrive(ono)», all’indicativo presente (Vc 3.6). Vedi ziχne.
Ziχnal «di Signia», genitivo di Ziχnei (Cl 1.928, 930).
ziχne probabilm.«segna(no),contrassegna(no)», in indicativo 3a pers. sing. o plur., oppure «segnino, contrassegnino», in congiuntivo esortativo 3a pers. plur. (LEGL 120) (LL II,5.9). da confrontare coi lat. signum «segno, contrassegno, disegno» (finora di etimologia incerta; DELL. DEL DELI), sigillum «piccolo segno, sigillo», Tyrrhena sigilla «bronzetti etruschi» (Orazio, Ep., II, 2. 180) (OPSE 232). Vedi Ziχnei, ziχri, ziχuχe.
Ziχnei «Signia», gentilizio femm., da confrontare con quello lat. Signius (RNG), nonché col lat. signum «segno» (Cl 1.932, 933, 1764). Vedi ziχne.
zχri «da segnare, da contrassegnare», in gerundivo (LEGL 127) (LL I.17.21). Vedi ziχne.
ziχu «scriba, scrivano»: Lartθ Vetes ziχu «Lart Vetio scrivano» (su coperchio d’ossuario; Pe 1.1041 – rec). Vedi ziχunce, ziχne.
Ziχu «Sic(c)onio», gentilizio masch., variante dell’altro Zicu (LEGL 53); Vl Ziχu Vl Mutual «Uel Sic(c)onio» (figlio di) Uel (e) di Muttonia» (su tegola ed ossuario; Cl 1.318, 319 – rec) (Cl 1.1765; Pe 1.1041; Co 1 .1, 25). Vedi Zicu, Ziχan[e]; cfr. Siki.
ziχunce «segnò(arono), scrisse(ro); ha(nno) segnato, scritto», in preterito debole (TC 62). Vedi ziχanace, ziχu.
ziχuχe «(di)segnò(arono), ha(nno) (di)segnato; scrisse(ro), ha(nno) scritto, prescritto», preterito debole attivo (non passivo!), 3′ pers. sing. e plur. (LEGL 117. 119); mi Araθiale ziχuχe «mi hanno disegnato per Arunte» (TCL capo IX) (su arhyballos; Fa 6.3 – 7:m) (Fa 6.1 X.2; Pe 8.4: TCOR 18). Vedi ziχne, ziχu, ziχunce; cfr. aliχe, vatieχe, zinaχe, menaχe, muluaniχ[e], tleχe, farθnaχe.   

La scelta tra la radice scrib- e la radice sic- latine, date le loro coesistenza e covalenza, potrebbe essere stata determinata anche dall’intenzione di distinguere due casate diverse, o due rami della stessa casata, per evitare confusione tra i discendenti.

Dunque se il latino, nel caso di Ziχu, scelse di usare anche una radice scrib-  diversa da quella etrusca zic-/ziχ- ma con medesimo significato, al posto di quella simile sig-/sic-, perché mai nel caso di Succonius/Socconius tradusse invece la radice etrusca zuχ-/suc- solamente con un’eguale radice suc-/soc- (e zuc- in falisco)?
I motivi possono essere due:
1) non si conosceva più il significato della parola originaria (o si preferiva “dimenticarlo” per varie ragioni possibili) e quindi rimaneva solo la possibilità di una traduzione fonetica e, in questo caso, la ricerca si potrebbe anche interrompere qua, ma mi sembra sia poco probabile per la secolare convivenza tra etruschi e latini, oppure
2) radice etrusca e radice latina erano perfettamente coincidenti per forma e significato, forse addirittura derivante la prima dalla seconda se si trattasse di un prestito linguistico dal latino avvenuto precedentemente alla scelta del lemma come gentilizio, e quindi non era necessario utilizzare una parola diversa ma con medesimo significato (sinonimo) o una perifrasi.

Per tentare di dirimere la questione è necessario quindi prendere in esame il gentilizio corrispondente latino Succonius/Socconius per elencarne i possibili significati.

SIGNIFICATI

Date tutte queste premesse, che danno conto delle difficoltà e delle ambiguità ancora presenti nello studio e nella comprensione della lingua etrusca, accertata l’impossibilità di tradurre direttamente il lessema, l’unico modo per cercare di attribuire a zuχ-/suc- un qualche significato è quello di passare attraverso la corrispondenza del gentilizio etrusco con il gentilizio latino Succonius/Socconius, ipotizzando che, a differenza del caso di ziχ-u > Scribonius, la forma latina ne traduca non solo la grafia, ma anche il significato, se non letterale, almeno semantico riferito alla radice etrusca.

Non è difficile quindi ipotizzare alcuni significati possibili ritrovando una corrispondenza della radice del gentilizio latino nelle seguenti parole:

Succus

Sūc-us,-i/sūcc-us,-i = succo“: il contenuto liquido di un corpo solido, la linfa di un vegetale, il risultato di una spremitura, ma anche con significato traslato l’essenza di una cosa, il suo spirito, ed anche il sangue, che ha la stessa radice linguistica di succo, *suc-/sak- = “scorrere”, secondo il Pianigiani nel suo vocabolario etimologico, un’origine diversa secondo altri

Sūg-o,-is, sūx-i, sūc-tum, sūg-ere = “succhiare, asciugare”: il suo participio perfetto sūctum, che dovrebbe essere la stessa categoria verbale espressa in etrusco dalla desinenza -u, è traducibile anche con “asciugato” e quindi “asciutto”, intesa come cosa privata del suo succo, e per estensione figurativa “persona secca, molto magra” oppure ancora “persona pallida, esangue”, ma forse anche il senso metaforico di “asciutto”, cioè “persona di poche parole” o “persona avara”.

Sūccos-us,-a,-um = “succoso, opulento, ricco”. Derivato dai primi due viene utilizzato da Petronio nel senso di “persona ricca” (Gaius Petronius Arbiter, Satyricon, 38, 6).

E’ questa l’opinione che mi sono formato, almeno per ora, col procedere delle mie ricerche: la radice etrusca zuχ-/suc- sarebbe la stessa del sostantivo latino (c)c-us,-i = “succo, linfa, essenza” e del verbo latino sūg-o,-is, sūx-i, sūct-um, sūg-ere = “succhiare, asciugare” (akk. enequ) ed il relativo participio passivo, reso in etrusco dalla desinenza in -u ed in latino um, mi porterebbe a tradurre zuχu/sucu (ammesso e non concesso che le due forme zuχ- e suc- abbiano ortografia diversa ma stesso significato, come ampiamente argomentato in ZUΧU) come sūctum = “aspirato, succhiato, asciutto“.

Questa traduzione potrebbe fornire una serie di significati già sufficienti a definire una caratteristica fisica, morale o figurata di chi se lo vide assegnare in forma di soprannome (cognomen) prima che si trasformasse in un gentilizio (nomen):

– da suc(c)us potrebbe derivare un soprannome legato alla ricchezza, ad un atteggiamento di sfoggio di ricchezza (wealthy): “il Gran Signore“; oppure al contrario di essenzialità, di sobrietà: “il Saggio“; difficile a dirsi, ma nella pagina SUCCO aggiungerò un altro possibile soprannome.

– da sugo il participio passivo: o suctus avrebbe potuto essere riferito ad una caratteristica fisica, ed allora il soprannome potrebbe aver significato “lo Smilzo, il Secco” (come sembra essere successo ad un ramo della famiglia dei Fieschi, gli Sciutti, citati ne Le antiche famiglie di Canale, Giovanni Ferrero, ed. Tradizioni n° 1 – Ediz. 1999 – Ristampa 2006 – Biblioteca della Comunità Montana Alta Val Trebbia), oppure avrebbe potuto essere una caratteristica comportamentale ed allora, con significato traslato, una persona asciutta la si sarebbe potuta definire di poche parole, cioè “il Muto“, il “Taciturno” anche inteso come “non parlante la lingua etrusca” (in questo caso si sarebbe trattato di un soprannome attribuito ad uno straniero, ovviamente), …oppure ancora avara…un “Arpagone” ante litteram. Un “l’Usuraio/lo Strozzino“, anche se possibile per una singola persona, non mi sembra probabile per un’intera stirpe di discendenti dato che sarebbe stato infamante tramandarlo di padre in figlio, forse nemmeno in una forma attenuata tipo “Banchiere/Prestatore“: nonostante nell’antichità l’usura fosse molto diffusa e non fosse illegale, subiva la medesima riprovazione morale che le attribuiamo anche oggi ed a quei tempi sarebbe stato considerato usura anche un tasso d’interesse contenuto, che oggi riteniamo accettabile quando chiediamo soldi in prestito ad una banca; non impossibile un “il Riccone” (già in quei tempi antichi il denaro veniva inteso come liquidità e paragonato al sangue, come ricordato in un passo dello storico latino Valerio Massimo (I sec. a.c – I sec. d.c.) nella sua opera “FACTORVM ET DICTORVM MEMORABILIVM LIBRI IX“, in cui vengono raccolti detti memorabili) come suggerisce il significato dell’aggettivo derivato da sūccus > sūccosus,-a,-um.

Sicc-us,-a,-um / sicc-o,-as, sicc-avi, sicc-atum, sicc-are  (pie.*seyk-) = “secco/seccare, asciugare” (nel senso di togliere il succo, la linfa vitale e quindi, per traslato, anche uccidere). Non ha la stessa radice di succus, ma per assonanza e significato è sicuramente correlato (alla fin fine anche ziχu è assonante con zuχu) e mi consente di aggiungere una riflessione sull’origine della parola zucca, che ho descritto nella pagina ZUCCA.

Socennius

Oltre a Succonius/Socconius la radice suc- potrebbe aver dato origine anche al gentilizio Socennius e ad altre sue variazioni quali Soci(l)lius, Soge(l)lius, So(c)cius, So(c)ceius, So(c)cinius, come ipotizzato dallo Schulze nella sua opera “Zur Geschichte lateinischer Eigennamen” a pag. 233. In questo caso la corrispondenza andrebbe cercata nel sostantivo:

Sociennus = “socio, compagno, amico”, una forma arcaica (presente nella commedia Aulularia di Plauto) ed alternativa di socius (pie. *sekw-1, “seguire”), presente anche nel falisco socia = “fidanzata, compagna”, e quindi ogni tipo di significato anche con senso traslato della parola socio.

Soccus

Socc-us,-i = “socco, zoccolo, calzatura indossata dagli attori comici, calzatura tipica dei pastori del centro Italia (ciocia)”, ma nei dialetti italiani settentrionali il “socc/zocc” (C dura), lo zocco, è tipicamente il ceppo su cui si appoggia la legna per spaccarla con la scure, ed il piede di un tronco tagliato ancora infisso nel terreno (vd. STIPES): per traslato la “testa dura” della persona cocciuta e ignorante. Portato peculiarmente dagli attori comici, soccus divenne anche il termine per indicare il corrispondente genere teatrale della commedia. Era considerata una calzatura femminile e gli uomini che eventualmente la indossavano venivano classificati come effemminati, per cui è possibile che il termine indicasse spregiativamente anche quest’ultimi per sineddoche (pars pro toto), come nel caso dell’identificazione della calzatura con la commedia.

Derivante dal gra. σύκχος, col medesimo significato e con etimologia incerta, forse correlato dall’avestico haxem = “pianta del piede”. La cosa curiosa, da approfondire, è che in avestico la stessa radice hax- si ritrova anche in haxan = “compagno, amico, socio” ed è correlata alla radice pie. *sekw-1 = “seguire”, tale per cui la definizione di socio sembrerebbe discendere figurativamente dal suo “camminare nelle scarpe” o “seguire le orme” del proprio sodale (un “succhiaruote“?).

Sucanus

Naturalmente anche un gentilizio etrusco, così come accade in latino ed in italiano, avrebbe potuto fissarsi su di un’intera stirpe a seguito della sua abitazione prolungata in un luogo specifico, il cui toponimo ne avrebbe reso immediatamente riconoscibile la provenienza. Di questa possibilità ho trattato nella pagina ZUXU a proposito dei toponimi che potrebbero essere derivati dall’antroponimo etrusco, in particolare di un paesino dell’orvietano, Sugano: nulla vieta di pensare che sia stato il toponimo a generare il gentilizio, si sposterebbe solamente l’ambito in cui ricercare il significato della radice zuχ-/suc-.

A queste corrispondenze ne vanno aggiunte altre due, di cui tratterò nelle pagine STIPES e SUKKO, mentre condurrò in SUCCO un ulteriore approfondimento sulla corrispondenza con suc(c)us per proporre un’ipotesi di traduzione più specifica.